“Bicchiere capovolto / sul nostro delirio di api”. Metafora riportata da quasi tutti i recensori del libro, sicuramente attribuita alla fantasia per esprimere il rovello mentale dell’uomo di fronte al problema escatologico, questi due versi – passando attraverso una mia analisi più razionale – denotano quanto la ricerca etno-antropologica della Giulietta avesse messo radici in lei già da bambina. Chi ha letto su “Spigolature salentine” il saggio “Oppio e oppiacei”, tratto dal volume “Tre santi e una campagna”, ricorderà che per calmare un forte mal di denti l’apicultore catturava un’ape in un bicchiere che, otturato dall’immaginetta di santa Apollonia, capovolgeva sulla faccia dolorante del paziente in modo che, una volta sfilata lentamente l’immaginetta, potesse conficcare il suo pungiglione. Operazione che svolgeva dopo che l’insetto aveva sbattuto furiosamente contro il vetro ronzando forsennatamente.
Ora, questa descrizione riguardante l’apicultore è tratta da un libro pubblicato nel 1994, mentre i versi fanno parte di una poesia tratta da un libro pubblicato nel 1968. Questo che significa? Che l’immagine poetica affonda le sue radici nella realtà, che cioè ha attinto alla sedimentazione di un avvenimento dalle ragioni etno-antropologiche al quale l’autrice avrà assistito al tempo dell’infanzia (anni 30 del Novecento), quando ancora nelle campagne salentine veniva curato così il mal di denti.
Non è gratuita la riflessione, perché stabilisce quanto la natura psicologica della bambina fosse attenta e predisposta ad assimilare ed incamerare avvenimenti, storie e racconti con relativo uso del linguaggio, ingenuamente e involontariamente, a scopo speculativo-avveniristico. In due parole, l’inconscio che si tramuta in cassaforte, se non in libretto bancario. Al di là della ricerca e relative conferme da adulta, ovviamente.
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