Perfetto, solo che “li cafàusi” mi pare una doppia forzatura: dal punto di vista linguistico il suo singolare (cafàusu) è una creazione inizialmente più o meno individuale che ha poi frustrato l’aspirazione dei suoi pochi fruitori alla sua diffusione e all’evoluzione da deformazione del solito nesso inglese a quasi toponimo e da questo a nome comune (l’autore, spero, non mancherà di chiarire queste mie quasi misteriose parole…), figurarsi poi il passaggio dal singolare al plurale…; da un punto di vista storico (non sto dicendo architettonico) non l’accomunerei ancora a muretti a secco, paiare, neviere e simili, anche perché nella conservazione dell’antico bisogna rispettare, più che mai in tempi di ristrettezze economiche, delle priorità dettate dalla cronologia e dall’importanza del manufatto.
Non vorrei, perciò, che ai responsabili (che fra qualche anno saranno impegnati con lo smaltimento del silicio…) politici venisse offerto il facile alibi che, se proprio bisogna salvare qualcosa, questo andrebbe fatto (ma sempre in teoria…) , tutt’al più, con una pagghiara, con un trullo (purché, sia ben chiaro, non disturbino il tracciato, non sempre retto, anche e soprattutto in senso metaforico… , di qualche superstrada) ma non con il cafàusu che per qualche decennio ancora varrà poco più di un water rotto, poi nulla, perché, a differenza di un trullo, di una pagghiara e simili, paradossalmente avrà pagato lo scotto della sua immersione in un ambiente densamente antropizzato alla cui vandalica stupidità avrà versato il suo esiziale tributo, nonostante il disperato tentativo di salvarlo da parte di qualche inguaribile pazzo che, comunque, ha, per quel che può valere, tutta la mia ammirazione.
Non suscita la mia ammirazione, invece, il passaggio dalla scienza all’invenzione, che sembra l’espediente oggi più in voga per attrarre sensazionalisticamente spettatori o lettori. Sarò grato a chiunque mi citerà la fonte (intendo quella originale, antica, greca, latina o ostrogota che sia) che ha autorizzato a scrivere “Arthas…amico di Pericle”. Ciò che io so è solo quanto riferisce Tucidide (VII, 33, 3-4): “Demostene ed Eurimedonte, essendo pronto ormai l’esercito proveniente da Corcira e dal continente, attraversarono con tutta la spedizione lo Ionio in direzione del Capo iapigio; e muovendosi da lì approdano alle Cheradi, isole della Iapigia e fanno salire sulle navi centocinquanta lanciatori di giavellotto iapigi di stirpe messapica e avendo rinnovato con Arta (in greco Artas, e la dentale non è aspirata), che essendo un dinasta, aveva procurato loro i lanciatori di giavellotto, un’antica amicizia, giunsero a Metaponto d’Italia”.
Nulla aggiunge Esichio nel suo lessico alla voce Artas: “Arta grande e splendido. Tucidide”.
Le parole di Tucidide, dunque, non autorizzano a supporre un’amicizia diretta tra Pericle e Arta ma tutt’al più l’esistenza di una delega (nemmeno a firma di Pericle…) di rinnovo di alleanza militare nelle mani di Demostene ed Eurimedonte. D’altra parte, il pezzo citato di Tucidide si riferisce a fatti che avvennero nel 413 a. C. e Pericle, pace alla buonanima!, era morto da sedici anni, per cui parlare di amicizia tra i due, trascurando il fatto che allora non esisteva l’aereo…, sarebbe azzardato anche in un romanzo storico…
La differenza di significato la lascio giudicare ai lettori, pur dovendo riconoscere, ahimè, che “amicizia” oggi non significa più comunione di affetti ma convergenza di interessi prevalentemente economici da tutelare (o da sviluppare…), se necessario, anche con le armi, proprio, insomma, come è da intendersi, purtroppo, l’”amicizia”, di cui si parla nel post.
Chiudo con una considerazione di carattere generale: il nostro passato è così ricco, pur nelle sue miserie, che sarebba da stupidi non riconoscere, che esso non ha bisogno, per una sempre discutibile esigenza di nobilitazione, di superfetazioni di qualsiasi tipo. Sarebbe come se, avendo un bellissimo edificio antico, gli aggiungessimo, pur con la buona (quando c’è…) intenzione di renderlo più bello, degli elementi decorativi che subito nel lettore attento, per quanto antichizzati e in armonia col resto, susciterebbero più di una perplessità…
Insomma, l’originale, nella sua integrità, è sempre un’altra cosa…e noi Salentini, se non riusciamo ed essere originali, dovremmo almeno rispettare l’”originalità” (l’ho scritto tra virgolette perché ha un doppio significato) dei nostri antenati. Solo così il nostro meridionalismo (non a caso mi è piaciuto nel titolo del post il punto interrogativo tra parentesi che accompagna “moderno”) potrà essere nuovo e diverso, autentico e vero.