Caro Fabio, accetto tutte le frustate, dilettantesche o professionali che siano, purchè in qualche modo, magari discutibile, motivate. Tra le ultime attendo da anni quelle di qualche accademico il cui mancato intervento può essere stato indotto da scarsa frequentazione della rete o da limitata o nulla dimestichezza con la stessa (a parte il fatto che oggi un filologo, come chiunque si interessi di ricerca, non può fare a meno del pc, gli allievi che stanno a fare?). Siccome in privato qualche attestazione di stima (su argomenti di natura etimologica non trattati in Spigolature ma su un altro sito) mi è pervenuta da parte di accademici pure autorevoli (da questi ultimi e da quelli che, per i miei gusti, autorevoli sono un po’ meno, mai un rimprovero), escluderei che il mancato intervento nel nostro caso (meglio nei nostri casi, perché le questioni poste cominciano a diventare molteplici) sia dovuto al fatto che ipotesi mie e dei miei commentatori non sarebbero degne della minima attenzione. Per ora, perciò, dobbiamo accontentarci dello scambio di idee fra noi dilettanti allo sbaraglio.
Per la prima questione da te agitata non è da escludere che le “issìche” siano il trait d’union tra l’idea del percuotere e quella del saziare, dal momento che l’etimologia è piena di salti metaforici ben più arditi.
Per quanto riguarda “vieto” (mi è piaciuto l’asterisco da te, non dal De Mauro, premesso all’analogico vetum) a me appaiono determinanti, a favore della mia tesi, le due testimonianze addotte. Quanto ad Orvieto sai benissimo la miriade di ipotesi avanzate da tempi immemorabili sulla sua etimologia (è stato messo in campo pure l’etrusco) e in particolare come Urbis vetus (a partire da documenti del X secolo “Urbiventum”) sia attestato, anche nella variante “Urbevetus”, in Paolo Diacono (VIII secolo). Tutte queste varianti mi sembrano la trascrizione (con arbitrario adattamento al latino, eccetto “Urbiventum”) del greco Оυρβιβεντός di Procopio di Cesarea (VI secolo). E, se la prima parte (Оυρβι-) potrebbe pure collegarsi ad urbs/urbis, non si capisce nella seconda (-βεντός) l’aggiunta di ν. D’altra parte il tentativo (di origine quanto popolare?) di “nobilitare” certi toponimi offre un altro indiscutibile esempio in “Urbino” che in latino è Urvìnum (Plinio e Tacito nei migliori codici), probabilmente connesso, per la configurazione del territorio, con urvum=manico dell’aratro) . Per questo non ritengo il presunto “Urbs vetus” sfruttabile.
Restiamo sempre in attesa (però io comincio a stancarmi…) di frustate, soprattutto da coloro che, almeno in teoria, dovrebbero essere maestri nel darle.