Infatti ce lo auguriamo in tanti che presto si spengano i riflettori sul Salento. Ci chiamano “refrattari”, “autolesionisti”, qualcuno ci definisce “puristi”, ma sono solo parole che dietro nascondono il vuoto di chi non sa guardare oltre la punta del proprio naso, perché nessuno ha mai riflettuto sul fatto che il turismo di massa non porta ricchezza, né ricchezza culturale né ricchezza economica. Il Salento ha tutte le potenzialità per attrarre un turismo d’elite (dove “elite” non sta per “gente ricca”, ma per “gente attenta”).
Ti faccio un esempio. Il classico turista attratto dal Salento viene qua, piazza una tenda in campagna, magari stende i panni su un dolmen e piazza un lenzuolo tra un menhir e un ulivo monumentale per avere un po’ d’ombra, poi si fa un giro a Lecce, passa per Porta Napoli, dice “oh, che bella!”, gli scatta una foto, ma magari non si chiede perché si chiama “Porta Napoli” (la risposta sarebbe banale, ma non gli passa per la testa); nel suo girovagare per il Salento, va di sicuro alla Baia dei Turchi (perché tutti ci vanno e perché è figa), ma sta mica a pensare che si chiama “Baia dei Turchi” perché ci ormeggiarono, appunto, i Turchi? E che ci facevano i Turchi in Salento? Boh? Ovviamente deve andare a Porto Selvaggio, farsi la benedetta foto sulla torre di S. Maria dell’Alto, ma non sa a cosa serviva quella torre. Infine, dopo il mare, se ne va ad un concerto della NdT a zompare e ubriacarsi. Poi, dopo il concerto, se qualche esecutore musicale (pochi ormai, a dir il vero…) prova a creare una “ronda”, questo ci si butta dentro, con l’immancabile boccia di vino in mano, e comincia a ballare stile tunz tunz, magari mentre all’interno si sta esibendo una coppia di ballerini. Ovviamente non gli viene in mente di chiedere come si balla, lui “balla” e basta. Ovviamente non vuol imparare la semplice regoletta per cui si balla una coppia per volta. No, non è divertente. Ancora con la boccia di vino in mano, va in una bancarella di tamburelli (dove ormai ci sono tamburelli “tradizionali” e cinesi), chiede il prezzo di un tamburello. Niente, troppo caro! E allora opta per quello cinese. Al ché torna nella ronda, si mette accanto ad un suonatore, e chiede “come si suona?”. Il suonatore “serio” lo manda a quel paese. Lo spierto di turno gli prende il “tamburo” in mano e comincia a suonare con un ritmo forsennato, dicendogli, con occhio ammiccante: “si fa così” (e magari sporcandoglielo un po’ di sangue, perché fa figo il sangue sul tamburo, fa uomo macho).
Il turista, illuminato dall’ottima spiegazione, inizia a suonare come gli hanno insegnato e s’inserisce in quello che ormai è diventato un fracasso, anziché una ronda, già, perché nel frattempo i suonatori “seri” sono andati via e nella “ronda” regna la discoteca a cielo aperto: i suonatori rimasti vanno ognuno con il suo ritmo (rigorosamente a 150-200 battiti al minuto), la gente all’interno balla e si dimena stile tunz tunz e lui, il nostro amico turista, finalmente si sente a casa.
Un attimo, ora che rileggo il tutto mi viene in mente una cosa. Vuoi che la colpa è la nostra? Il turista nostro amico è arrivato perché allettato da quello che altri turisti gli hanno detto o perché ha letto in giro per la rete che il Salento è uno sballo! Arrivato qui ha trovato zero informazioni sulla storia e la cultura del Salento, la Notte della Taranta (con le sue politiche pro-casino), i venditori di tamburelli cinesi e tanti salentini che fanno bordello…
Azz, mi sa che alla fine la colpa, in fondo in fondo, è anche un po’ la nostra…
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Commenti su Come ci inventiamo una cultura: il caso della Notte della Taranta. Parte seconda. di Giovanni
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