non è che non abbia nulla a cui pensare, ma il post di oggi mi ha fatto tornare alla mente e ripensare sui diversi termini adoperati nel nostro dialetto per indicare lo sporco. Ancora una volta rifletto sulla ricchezza di etimi e non finisco di ringraziare Armando per le sollecitazioni che ci offre.
Ai termini del commento precedente ci aggiungo questi altri, sempre confidando nella bontà e sapienza di Armando nel volerci indicare l’etimologia:
nguacchiare: sporcarsi con macchie ben visibili (la sparo, chiedendo venia se azzardo una provenienza dal francese “gouache”);
‘mbrattare: per un generico “sporcare”, per lo più riferito a superfici come muri;
mbuzzare: sporcarsi i piedi con gli escrementi dei cani;
ulitare: rivoltarsi nello sporco, come fanno i maiali.
A questi ci aggiungo una serie di aggettivi a tema che ho ricordato:
letu: antico termine, ormai inutilizzato, per indicare lo sporco come contegno o moralità;
mputtanutu: riferito alla biancheria, non candida come la massaia vorrebbe e spera di ottenere dopo “lu còfanu”;
ngalinutu: per la biancheria ingiallita dal non uso o dalla cattiva conservazione. Ma anche per la voluta colorazione della biancheria con le bucce delle melagrane o il mallo delle noci;
canisciatu: proprio della biancheria “bruciata” dal ferro a carboni di un tempo;
ntartarutu: con incrostazione dello sporco.
E per finire due sostantivi:
lu zuzzamientu: lo sporco da noncuranza, da negligenza, da sciatteria;
la stampa: impronta dei piedi o delle scarpe lasciata per esempio dal camminare su un pavimento lavato da poco.
Sono certo che ci saranno delle correzioni e degli arricchimenti da parte di chi ci legge