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Channel: Commenti per Spigolature Salentine
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Commenti su La cotognata leccese, un prodotto d’eccellenza di nino pensabene

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Mi complimento con l’amico Massimo per l’ottimo articolo e la fedeltà alla ricetta tradizionale. Mi permetto comunque aggiungere che il fare bene la cotognata, come le altre confetture del resto, è un’arte per la quale occorre molta dedizione e pazienza. Quando nella ricetta si dice “lasciate cuocere il tutto senza coperchio fino a quando la confettura avrà assunto una buona consistenza e la tipica colorazione rosso-bruna”, è implicito che per raggiungere la buona consistenza – atta a fare le formine e perché queste non abbiano ad ammuffire durante l’inverno – è necessario rigirare l’impasto in continuazione con un cucchiaio di legno, come è detto all’inizio per la lessatura delle cotogne. Senza questo stare in continuazione in piedi davanti al fornello buscandosi li nsiddhri (le gocce) scottanti per via ti lu spittirrare (del traboccare) dell’impasto dalla caldaia, si rischia o di bruciacchiare la confettura facendola attaccare tutta al fondo ed avendola non di colore rosso-bruno ma quasi nero, o di lasciarla morbida senza la possibilità di creare i pezzetti o le formine. Procedimento valevole anche per quando si decida di conservarla in vasi di vetro, onde evitare che dopo un po’ – alla vista di un accenno di muffa – si debba riversare nella pentola e ultimare la cottura a dovere.
Certo, oggi, rinunciando alla genuinità del prodotto, quasi tutti o tutte – per l’addensamento e solidificazione delle marmellate – usano le bustine di pectina, prodotto che abbrevia i tempi di cottura e i fastidi a cui mi sono riferito.
Io so tutte queste cose non perché sia un esperto dolciario (tutt’altro!) ma perché lo era mia moglie, riconosciuta tale, e in modo eccelso, da quanti l’hanno conosciuta da vicino e che ancora oggi lo possono testimoniare.
Lei si è sempre rifiutata di usare le bustine di pectina facilmente reperibili in commercio: diceva che era una perversione culinaria e che le confetture così frettolosamente ottenute erano la sottospecie se non addirittura la parvenza di quelle fatte nel modo tradizionale. Insisteva pure nel dire che vanno fatte in giorno di tramontana e, se donne, mai in periodo catameniale (oggettivazione – lei diceva – erroneamente attribuita a credenza o superstizione popolare ma da lei stessa accertata anche attraverso la scultura, che in quei giorni fatidici le era vietata perché la creta non reggeva la modellatura, perdeva di nerbo, si afflosciava).
Per ritornare alla solidificazione per ordine di cottura naturale, ricordo che lei si è sempre rifiutata di fare la cosiddetta “cotognata bianca” per il fatto che per ogni due chili di cotogne (tanto era la quantità consigliata per questa ricetta) si dovevano aggiungere 2 cucchiai di amido per dolci, che avrebbero consentito così di far bollire la purea mista allo zucchero (sempre tanto e tanto) per soli 5 minuti a fiamma forte. Un particolare per fortuna molto naturale di questa ricetta era quello di fare asciugare al sole le formine dopo averle passate nello zucchero. Era buonissima, noi la mangiavamo ogni anno perché regalata da due cugine di Giulietta che vivono a Lecce e che ancora ringrazio anche per la ricetta che mi ritrovo, cioè per l’appunto scritto perché dettato telefonicamente, ma ricordo che Giulietta preferiva confezionare il tipo rosso-bruno riconoscendogli le prerogative che quella bianca non aveva per l’eccessiva delicatezza o raffinatezza che dir si voglia.


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