Rispondo cumulativamente e ringrazio per gli interventi, anche se, ribadisco, sarebbe bello che i collaboratori non fossero sempre i “soliti noti”.
Il “màsciu” cui allude Fabio credo sia la voce di Alessano, Castrignano dei Greci, Galatone, Galatina, Parabita e Seclì, usata nel significato di persona mascherata. Mi pare molto evidente che è altro che deformazione di “mago”; e tutto quadra sul piano semantico e fonetico. C’è un altro “màsciu” usato a Gallipoli per indicare il vassoio con i doni che si scambiavano i fidanzati (uso l’imperfetto perché credo che questa tradizione, come il “pumu” neretino, sia mora e sepolta da tempo) e a Mesagne nel senso di ciocca (anche di ciliege), entrambi deformazione di maggio con evidentissimi riferimenti temporali.
Mi appare improbabile (per non dire impossibile) che il nostro “macu” si ricolleghi a “muco” per i motivi che ora esporrò motivi. Se la sovrapponibilità semantica (molto parziale, per la verità) è ipotizzabile, bisogna ricordare che “muco” in dialetto fa “muccu”, che è dal latino “muccus”, variante attestata anche se meno frequente di “mucus”. A parte la scomparsa del raddoppiamento (che è in contrasto con le nostre abitudini espressive) non c’è spiegazione sul piano fonetico per il passaggio della “a” in “u”. Credo che sia più che sufficiente per affermare che nel nostro caso la teoria del rasoio di Occam non possa essere applicata, dal momento che la prima ipotesi, almeno a mio avviso, non regge, per quanto suggestiva. E poi, questa teoria di Occam, che pure è alla base del pensiero scientifico moderno, a me pare un pò ricordare, tutto sommato, l’ipse dixit (in questo caso l’ipse non sarebbe Aristotele ma colui che ha formulato l’ipotesi, al momento (e sottolineo al momento…) incontrovertibile. Ben vengano, perciò, ipotesi alternative, purché plausibili, anche perché quelle che non lo sono possono, comunque, far scattare nel ricercatore la scintila che da tanto tempo attendeva
Passo a “strulicàre” esaminando la nuova ipotesi formulata da Marcello, sulla quale ho da dire quanto segue. Extra+logos, tout court, è, sempre a mio avviso, debole non certo per incongruenza semantica ma,anzitutto, per una ragione di fondo: è estremamente improbabile che una voce dialettale possa essere “bastarda”, formata, cioé da una parola latina (extra) e da una greca (logos). Questo fenomeno, che non coinvolge però nello stesso tempo le due lingua classiche, è di formazione moderna (un solo esempio: “burocrazia”) e, d’altra parte, nonostante abbia spesso nei miei interventi sottolineato la creatività del dialetto, essa non si spinge a tali raffinatezze che suppongono un retroterra culturale (in senso filologico) di notevolissimo spessore. Ora il “logos” greco si ricollega al verbo, sempre greco, “lego” che significa (l’ordine non è casuale) raccogliere, scegliere, narrare. In latino esiste il verbo “lègere” con la trafila semantica di raccogliere, passare in rassegna, recitare, leggere. I rapporti tra il greco “lego” e il latino “legere” sono tanto stretti ed evidenti che non è il caso di soffermarsi. E per “logos”? Esso sopravvive nel verbo latino “loqui” che significa parlare e che in italiano compare solo in forme composte (eloquio, colloquio) figlie di analoghe forma latine. Dovremmo ipotizzare da “loqui” un volgare *loquàre>luquàre>licàre e, finalmente, con aggiunta di extra ed aferesi di “e”, stralicàre. In questo modo supereremmo le difficoltà della bastardaggine, ma rimarrebbe insormontabile la spiegazione del passaggio a>u. Un’ultima nota che è anche un’autoobiezione: “astrologare” comporterebbe un passaggio “o”>”i” che a prima vista potrebbe sembrare inusuale: sicuramente il Rohlfs nel proporre la sua etimologia ha tenuto conto della variante brindisina (attestata, però, solo in testi scritti) “strulucà” con i seguenti, regolarissimi, passaggi fonetici: astrologare>strulucare>strulicare.
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