Non c’è bisogno d’inforcare gli occhialini per le trasmissioni in 3D per sentirsi parte viva di questo splendido racconto. Potrei essere uno dei figli di Tore, magari quello più vicino a Sante, e osservare ogni sua perizia sprofondando nel suo rumoroso silenzio. Me ne affezionerei, ne sono certa, attratta da quella ricchezza d’animo che fiorisce anche tra le ‘chianche’ bianche e compatte della sua solitudine. Ma tutto si sgretola, anche la roccia più resistente, quella che Sante trasforma in blocchetto, in cava, in fatica e vita, la sua. Già, una vita infaticabile quella del Muto, tanto da non permettere l’entrata di altro, meno che mai della curiosità e della pietà, atavica illusione d’incatenare vuoti presenti e ricordi lontani. Alla fine della sua storia, quando Sante se ne va quasi per sua decisione, il lettore e i suoi amici si rendono conto di non aver saputo mai niente della sua storia, ma in compenso si trovano tra le mani la generosità delle sue azioni grazie al verde rigoglioso del giardino, all’ordine e la semplicità della sua dimora, all’armonia della natura attorno a lui, frutto dell’amore e del rispetto che in vita le ha sempre riservato. Lì gli uccelli non hanno paura dell’uomo, lì c’è refrigerio dalla calura estiva e riparo dal freddo dell’Inverno, un po’ come nei sentimenti. Cosa si può voler conoscere di più di un uomo?
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